La Quaresima ci interroga sulla necessità di praticare l’astinenza in una realtà dove milioni di persone soffrono la fame. L’articolo, apparso sul Kalaritana Avvenire del 23 marzo, di Gian Paolo Uras direttore del Centro missionario diocesano.
Fermo al semaforo, incontro ogni giorno un giovane nigeriano. Sentendo la sua voce rauca gli porgo una caramella, ma lui, con un sorriso gentile e deciso, mi risponde: «No, grazie, sono in Ramadan». Rimango colpito dalla sua fedeltà al digiuno, vissuto con naturalezza e convinzione. E mi chiedo: quanti cristiani oggi digiunano?
Il digiuno forzato
Da missionario, non posso non pensare al digiuno «forzato» di milioni di persone. Un giorno, in Messico, chiesi a Francisco, un giovane universitario, cosa mangiasse durante la giornata. Mi rispose con assoluta normalità: «Uno yogurt. E, se posso, qualcos’altro». Partiva alle sei del mattino e rientrava a notte fonda nella baraccopoli dove viveva. Uno yogurt per sopravvivere a un’intera giornata. E come lui, tanti altri nei paesi del Sud del mondo. Secondo la Fao, oltre 735 milioni di persone nel mondo soffrono la fame, e ogni anno circa 3,1 milioni di bambini muoiono per malnutrizione, mentre, in tutto il mondo, vengono sprecati circa 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti ogni anno. Una realtà che dunque grida giustizia.
Scelta di solidarietà
Il digiuno cristiano non è un semplice esercizio di privazione, ma una scelta di solidarietà. La Bibbia ci ricorda: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato?» (Is 58,6-7). Digiunare non significa solo rinunciare a qualcosa, ma è condividere, liberarsi dall’egoismo per aprire il cuore a quanti soffrono. Papa Francesco non di rado ha parlato del digiuno, ricordandoci che riguarda uno stile di vita (16 febbraio 2018). Anche san Giovanni Paolo II sottolinea come il digiuno dovesse essere finalizzato alla carità: «Privarsi di qualcosa per sovvenire alla necessità del fratello» (21 marzo 1979). San Pietro Crisologo aggiunge un richiamo ancora più forte: «Chi digiuna comprenda bene cosa significhi per gli altri non avere da mangiare. Il digiuno non germoglia se non è innaffiato dalla misericordia» (Discorsi 43; PL 52, 320 e 322).
Offrire sé stessi
Il vero digiuno, dunque, non è solo un atto personale, ma un ponte verso la missione. Signora Cecilia lo ha capito bene: ogni venerdì mette da parte il costo del suo pranzo per donarlo ai poveri della missione. Alla fine dell’anno, il suo risparmio era diventato un piccolo tesoro di solidarietà. Cecilia ha trasformato una rinuncia in un dono, in un gesto di carità che illumina le parole di Gesù: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare». Ma il digiuno cristiano può spingersi oltre, fino all’offerta di sé. È la logica del dono totale che molti missionari testimoniano con la loro vita donata fino al martirio. Suor Luisa dell’Orto, martire ad Haiti nel 2022, diceva: «Mi direte che sono un po’ folle. Perché restare qui? Perché esporsi al “rischio”? Poter contare su qualcuno è importante per vivere!». Il suo digiuno, come quello di tanti come lei, non è stato solo di cibo, ma di tutto ciò che poteva trattenerla dal dare la vita per comunicare il Vangelo.
La Quaresima ci offre l’opportunità di riscoprire il digiuno come atto di giustizia e speranza. Ogni piccola rinuncia, vissuta con amore, può diventare una grande testimonianza di fede e solidarietà. Digiunare non è solo sottrarre qualcosa a noi stessi, ma restituire dignità a chi lotta per sopravvivere. E in questo gesto, piccolo ma rivoluzionario, il nostro cuore si apre alla missione della Chiesa.
Gian Paolo Uras – Direttore Centro missionario diocesano (Articolo apparso sul Kalaritana Avvenire del 23 marzo)
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