L’attuale situazione nella Repubblica Democratica del Congo rappresenta una tragedia umanitaria di proporzioni drammatiche. Il Papa, il 29 gennaio, ha lanciato un appello urgente affinché tutte le parti coinvolte nel conflitto si impegnino per la cessazione delle ostilità e la salvaguardia della popolazione civile, nelle zone interessate dalle operazioni militari.
Le notizie che giungono sono allarmanti: massacri, violenze diffuse, bande armate che seminano il terrore. Eppure, nonostante la gravità degli eventi, questo dramma fatica a trovare spazio nei media internazionali, rimanendo ai margini dell’attenzione collettiva. Poche immagini, pochi dibattiti, poche riflessioni emergono su una questione che meriterebbe un coinvolgimento profondo e immediato.
Dal 1991, la Conferenza Episcopale Italiana ha sostenuto progetti nella Repubblica Democratica del Congo per un totale di 136 milioni di euro, grazie anche ai fondi dell’Otto per Mille, concentrandosi sugli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli. Tuttavia, ciò che più colpisce è l’indifferenza di gran parte del mondo di fronte a questa tragedia.
Ed è proprio per contrastare questa logica dell’indifferenza che si inserisce un’iniziativa di speranza e solidarietà: il progetto “Prendersi Cura”. Proposto dai giovani del Consiglio del Mediterraneo, promosso dalla CEI e dalla rete Mare Nostrum con la Fondazione La Pira, questo progetto intende attivare nelle diocesi un’azione concreta di sostegno per i senza fissa dimora, le famiglie in difficoltà, le madri in condizioni di disagio, le vittime di tratta, i giovani vulnerabili, gli immigrati e i rifugiati.
Il progetto “Prendersi Cura” incarna una logica diversa rispetto a quella dell’indifferenza. È una logica di attenzione, di vicinanza, di sostegno concreto a chi soffre. È il desiderio di vedere, di chinarsi, di farsi carico della vita altrui con responsabilità e dedizione. In questa prospettiva, la speranza non è un concetto astratto, ma un’azione concreta di sostegno e accompagnamento.
La speranza vera deve saper trasformare i segni drammatici del nostro tempo in segni di misericordia e di speranza condivisa. Per questo, la cura diventa l’atteggiamento più significativo, poiché significa ascoltare, guardare, visitare, supportare e accompagnare l’altro nel suo cammino. Ma chi si prende cura degli altri, inevitabilmente si prende cura anche di sé stesso.
Come scriveva Etty Hillesum nel suo diario, prendersi cura dell’umanità indifesa significa prendersi cura della propria parte più fragile e vulnerabile. È in questa prospettiva che si gioca il grado di civiltà della nostra convivenza: tra chi sceglie l’indifferenza, pensando solo ai propri interessi, e chi invece si china sull’umanità sofferente per tendere una mano e offrire speranza.
Di fronte alle tragedie contemporanee, la scelta della cura diventa un imperativo morale, un cammino di speranza condivisa che può trasformare il nostro presente e costruire un futuro di maggiore giustizia e fraternità.
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