Come il Covid ha cambiato la sanità nell’Isola Nuovi positivi aspetti, difficoltà amplificate: il quadro con la segretaria regionale Anao-Assomed Susanna Montaldo

Cinque anni fa, il lockdown stravolgeva le vite dei sardi. Tanto da creare un prima e un dopo anche nella sanità e nel modo di declinare il diritto alla salute. Con conseguenze positive da un lato e negative da un altro, rintracciabili oggi nella quotidianità.

Miglioramenti

«L’aspetto positivo – spiega Susanna Montaldo, segretaria regionale del sindacato Anaao-Assomed – è che si è avuta una proliferazione di sistemi di monitoraggio dei pazienti: l’ assistenza alle persone con patologie croniche si è diretta verso il domicilio del paziente. Si sono sviluppati tutti i sistemi di telemedicina e di health sensors. Questo ha significato, per esempio per i pazienti diabetici, dei cambiamenti fondamentali. La stessa cosa è successa con lo scompenso cardiaco. Il Covid ha dato un impulso enorme allo sviluppo delle tecnologie che cinque anni fa non erano ancora perfezionate. In più, il Pnrr ha previsto lo stanziamento di diversi fondi per rendere fruibile la sanità in casa o creare dei luoghi di sanità di prossimità, come gli ospedali di comunità, che permetteranno di offrire assistenza a chi, dopo un intervento, deve proseguire un percorso riabilitativo. Siamo nel mezzo di un percorso».

Ciò che non va

L’altra faccia della medaglia però è più che nota ai cittadini. «L’aspetto negativo – prosegue la segretaria – è che le criticità già presenti si sono amplificate. Già allora si parlava di una realtà in cui gli ospedali chiudevano e quando è arrivata la pandemia non c’erano più posti letto dove sistemare i pazienti. Le liste d’attesa di conseguenza, per qualsiasi aspetto, sono aumentate. Nel frattempo sono andati in pensione molti colleghi e oggi se ne avvertono le conseguenze. Diversi bandi vanno deserti perché è diventato meno attrattivo lavorare nel sistema sanitario nazionale. Così noi oggi abbiamo reparti che non si reggono più in piedi, medici costretti a turni massacranti e tanti pazienti che non si sono più curati». A ciò si aggiunge la presenza delle problematiche dell’intero panorama isolano e dell’intero Paese. «In Sardegna abbiamo anche il problema della mobilità. È difficile che un medico laureatosi a Roma venga in Sardegna a lavorare, ma allo stesso modo chi abita a Cagliari non può decidere di lavorare a Sassari. Bisognerebbe, inoltre, delocalizzare le università. In tutta Italia si sta facendo un passo in avanti creando le reti formative, che coprono anche i territori più disagiati, ed è una soluzione che potrebbe portare i giovani a restare nel territorio per almeno un periodo di tempo. C’è poi – aggiunge Montaldo – il problema generale creato dalla riduzione dell’accesso alla facoltà di Medicina. Una decisione presa senza considerare l’evoluzione della realtà. Adesso i giovani hanno notato che andando all’estero la professionalità viene riconosciuta più velocemente e questo ha un peso nelle scelte».

Il divario

Sullo sfondo resta poi una disparità di genere che è realtà anche nel sistema sanitario. «In Sardegna – afferma Montaldo – a lavorare nel SSN sono per il 58% le donne. Nonostante questo, professionalmente le donne non hanno un riconoscimento adeguato. Neanche l’11% delle professioniste riesce a conquistare una direzione di situazione complessa, ciò inficia anche sulla disparità di stipendi che è figlia della differente progressione di carriera. In più le donne non fanno libera professione, perché il secondo impiego è quello di prendersi cura dei figli o dei genitori. A ciò si aggiunge il fatto che la maternità viene spesso percepita come una colpa, a causa delle mancate sostituzioni. Un fatto che dimostra che siamo ancora indietro».

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